venerdì 21 maggio 2010

Pig Island

fino al 4.VII.2010
Paul McCarthy
Milano, Palazzo Citterio

McCarthy mette in scena il suo circo dalla risata sguaiata tra le stanze e i lugubri scantinati di un palazzo dimenticato da Milano. È una favola insanguinata, dal sapore dolciastro di ketchup

Gli avanzi della confusa genesi di un mondo grottesco e surreale. Gli scarti, le tracce e i rifiuti lasciati da un creatore disordinato. A chi arriva attraverso un percorso incerto e allucinato fin nel profondo scantinato di Palazzo Citterio, così appare Pig Island – L’Isola dei Porci, l’installazione frutto di quasi sette anni di lavoro, cuore della mostra che Paul McCarthy (Salt Lake City, 1945, vive e lavora a Los Angeles) ha portato a Milano su invito della Fondazione Nicola Trussardi, e la cui cura è stata affidata a Massimiliano Gioni.  Oltre 100 metri quadri di caos nei quali è possibile trovare abbozzi, calchi e sculture incomplete tra resti di cene da fast food, ritagli di giornale, scarpe inquietantemente appaiate e giocattoli rotti: non la semplice ricostruzione dell’atelier dell’artista a Los Angeles, ma tutta la fisicità di un processo creativo in cui l’arte si sporca le mani con la quotidianità, fatta di bisogni, di ricordi e di forme di intrattenimento forzate e subite. Culmina nell’Isola dei Porci il viaggio lungo la linea sottile tra realtà e finzione, tra sogno – americano, ma sempre più “globale” - e incubo: una linea tracciata da McCarthy – con opere realizzate tra il 1978 e il 2010 - non per dividere, ma per mescolare, per trascinare in continui rovesciamenti di prospettiva in cui bonari personaggi disneyani sono coinvolti in scene grottesche di violenza ed erotismo perverso, dove però il sangue è ketchup e gli escrementi cioccolato, e i personaggi reali – George W. Bush in Static (Pink), Angelina Jolie, Paula Jones...– sono cartoon sfigurati dall'esagerazione della realtà stessa. L’obbiettivo non è fare della comune satira: i personaggi trascinati davanti agli sguardi dei visitatori di Palazzo Citterio perdono la loro connotazione politica, ne conservano solo l’immagine pubblica come un vuoto simulacro, riempito provocatoriamente da McCarthy con gli elementi più trash della sottocultura attuale. È tutto finto ed è tutto vero, nella stessa misura in cui è vera una fiction e finto un reality, in un turbine di esasperazione burlesca che avvolge il visitatore mentre in un angolo l'artista stesso – rappresentato da una scultura iperrealista in lattice – dorme e sogna tutto questo.
E anche quando si torna nel cortile assolato, dove nel rassicurante colonnato settecentesco svetta un'esilarante bottiglia gigante di ketchup, e ancora un po' oltre, già sul marciapiede ormai fuori dal perimetro della mostra, ancora dalle viscere del palazzo arrivano le grida dei deformi pirati delle installazioni audio-video realizzate da Paul McCarthy con il figlio Damon, a contaminare la concreta sobrietà di Milano con gli echi di un carnevale al contrario.

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